I conti di Montemarte si ritirarono nel castello di Titignano e di Corbara, estesero i loro possedimenti verso la città di Orvieto e parteciparono attivamente alla vita politica orvietana. La presenza dei Montemarte è testimoniata da varie opere, sulle quali è apposto lo stemma araldico della famiglia. La partecipazione alla vita politica ed amministrativa della città, i numerosi atti bellici dell’epoca furono documentati da Francesco di Montemarte, che fu autore di una Cronaca degli avvenimenti di Orvieto dall’anno 1333 all’anno 1400, pubblicata dal marchese Filippo Antonio Gualtiero nel 1846.
Alcunibrani tratti dalla Cronaca di Francesco di Montemarte:
Nel 1389 del mese di giugno messer Ranallo Medrato da Orvieto e m’esser Bartolomeo da Prato, ribelli alla Chiesa, con 250 cavalli vennero a fare il guasto a Corbara, portarono via tutto il grano che era nel Piano della Sala e tagliarono i vigneti.
Dopo quattro giorni tornarono messer Bartolomeo e Berardo della Sala con 400 cavalli, con l’intezione di restarci e posero il campo sulle rive del Tevere. Francesco di Montemarte in quei giorni assente tornò in gran silenzio con 100 cavalli, 150 fanti, con gli uomini di Corbara; quelli di Titignano, con a capo Francesco del conte Pietro, con 100 cavalli della Chiesa e rivò in tempo anche messer Simone con 100 cavalli. A mezza notte l’assalirono fecero molti morti, prigionieri e inseguirono gli orvietani fino alle porte della città.Con la morte di messer Ranallo gli orvietani, fino ad allora nemici della Chiesa, firmarono una tregua, fu firmata da Luca di Berardo in rappresentanza degli orvietani e da Francesco di Montemarte rappresentante della Chiesa. L’incontro avvenne nella chiesa di Santa Maria de Stiolo presso il borgo di Corbara. Nel 1392 il 29 giugno i Muffati e i Bertoni (famiglie orvietane) comandati da Candorre di Battipalli con 70 cavalli, 150 fanti di notte entrarono nel borgo di Corbara arsero alcune case e nel ritorno arsero i barconi di gregne con un danno di 100 some di grano. Dopo qualche mese Ranuccio figlio di Francesco attaccò, per vendicarsi, il Botto e lo rase al suolo. Una notte dell’anno 1392 un gruppo di uomini d’armi di Baschi entrarono nel borgo di Corbara rubando cavalli, asini e uccidendo qualche uomo, ma le grida svegliarono i castellani che inseguirono e raggiunsero i predoni sulle rive del Tevere facendoli prigionieri e recuperando il bottino. Nel 1395 nel mese di gennaio per quindici giorni il Tevere fu ghiacciato e quelli di Corbara ci arsero i fuochi, ci mangiarono, ci ballarono così quelli di Baschi, tale evento non si ricordava a memoria d’uomo. Stesso evento si ebbe anche 1491. |
La Chiesa di San Antonio
Un documento rinvenuto nell' Archivio Vescovile di Orvieto, risalente alla prima metà dell' ottocento, afferma che la chiesa di Sant' Andrea Apostolo, situata nella frazione di Corbara nel comune di Orvieto, sia stata costruita per iniziativa degli stessi Montemarte tra il XIV e il XV secolo. Posta a monte di un' ampia scalinata che prende avvio dalla strada principale. La facciata a doppio spiovente, stretta da colonne tuscaniche poste agli angoli dell' edificio, crea una cornice che vuole evidenziare la semplice bellezza e armonia di questa chiesa, le paraste sono sormontate da un timpano triangolare.
La parte frontale si presenta intonacata, come le altre pareti esterne ed è caratterizzata da un portale in legno con decorazioni in rilievo di gigli, che ritroviamo nello stesso stemma della famiglia dei Conti di Montemarte,e che, a sua volta, è incorniciato come la facciata, della chiesa e sovrastato da una finestra rettangolare.
L'ambiente liturgico, intonacato e tinteggiato,è costituito da un'unica navata coperta con volte a crociera a tutto sesto, sviluppate su quattro campate che poggiano su di un cornicione sorretto a sua volta da paraste tuscaniche, con presbiterio rialzato protetto da una balaustra in marmo. L'altare maggiore è in marmo policromo, mentre i quattro laterali, collocati nelle nicchie centrali delle quattro esistenti lungo ognuna delle pareti laterali, due per lato, sono realizzati in muratura stuccata. |
Chiesa di Sant'Antonio Corbara |
Lungo il tratto fluviale si stanziarono gli Umbri, i Falisci, gli Osci, intrattenendo nel IV sec. a.C. rapporti con Roma. Attraverso alcuni punti di raccordo, che permettevano lo spostamento da una riva all'altra,contribuendo a stabilizzare i rapporti, si ritenne opportuno edificare dei ponti, che facilitassero i contatti tra le varie popolazioni.
Ci suggerisce Tito Livio: “e grandi convogli di frumento giunsero a Roma per il Tevere, grazie agli ottimi uffici dell'Etruria." Dionigi D'Alicarnasso testimonia come il Tevere fosse una via facilmente navigabile già in epoca romana :”Il Tevere non è traversato nella sua foce da cumuli di arene, come altri gran fiumi, né dilaga in stagni e paludi, né si consuma in altre maniere prima che giunga nel mare: ma è sempre navigabile con barche fluviali mezzane”.
Livio e Dionigi concordano sul fatto che il Tevere e i suoi affluenti fossero percorsi da piccole, medie, grandi imbarcazioni in inverno e in primavera, tranne che in estate, dato che il livello delle loro acque si abbassava. Tra le merci più diffuse troviamo grano, farina, vino, olio ed ortaggi, prodotti necessari per il fabbisogno giornaliero di Roma. Tra i più importanti ricordiamo il sale proveniente dalle saline di Ostia, stoffe, aromi, cristalli, calzature, bronzi e ceramiche.
In età romana la via fluviale venne particolarmente privilegiata, poiché le comunicazioni sull’acqua erano le più sicure ed economiche. A partire dal I sec. a.C. l’Umbria conosce un riassetto territoriale partendo dalla zona amerino–orvietanotuderte, che permette il collegamento tra le ville romane nel tratto umbrolaziale, garantito da numerosi impianti portualifluviali.
Il distretto orvietano ha il suo punto di riferimento nelle strutture di Pagliano, porto attivo dalla seconda metà del I sec. a.C. al IV sec. d.C. Sebbene i primi abitanti di questa zona fossero stati gli Etruschi, il massimo periodo di sviluppo è quello in epoca romana, come attestano i ruderi in opus reticolatum (parametro caratterizzato da elementi in tufo piramidali affogati nel calcestruzzo dei quali rimangono in vista solo le basi quadrate). Pagliano, situato su una lingua di terra a forma di cuneo, assai fertile, dista circa 6 km da Orvieto in direzione SudEst nel punto in cui il Tevere riceve le acque del Paglia. Una recente iniziativa della Soprintendenza archeologica dell’Umbria, in collaborazione con il Corpo forestale dello Stato, ha consentito la “riscoperta” dell’impianto portuale con un’ opera di disboscamento. Mancini(1890) e poi Perali(1919) ritenevano che si trattasse di un edificio termale, per il ritrovamento di alcune tubature entro l’abitato.Tuttavia la sua forma e disposizione, dissimili da quelle in uso nelle terme romane, e la presenza di resti di un ponte sulla sponda sinistra del Paglia in quella zona, indussero C. F. Gamurrini ad ipotizzare che Pagliano fosse una mansio, stazione per viandanti. Il fatto che ci fosse tale struttura implica la probabile esistenza di una strada di fondo valle che collegava OrvietoTuder. Ma nel 1913 Ricci, dal nome “Pagliano”, che certamente era quello di una proprietà romana, pensò che si trattasse di una stazione di navigatori e di una villa rustica. Wenceslao Valentini, poi avanzò l’ipotesi che Pagliano fosse quella fabbrica di fittili ordinari, nota con il nome di portus Licinii, sia per il ritrovamento di un bollo figulino con il nome di Licinius al di là del Tevere e sia per il fatto che nelle carte medievali quella zona era designata con il toponimo Ricinianum, possibile correzione di Licinianum. Dalla campagna di scavo condotta nel sito archeologico sono emersi elementi importanti che hanno indotto gli esperti della Soprintendenza archeologica dell’Umbria che Pagliano fosse un importante centro commerciale dell’ Italia centrale. Infatti molte anfore vinarie ed olearie, rinvenute nel sito, testimoniano che qui c’erano magazzini di tali prodotti. La presenza di 16 macine da mulino e di granai a nordest, attestano che qui c’era un pistrinense opificium in cui avveniva la trasformazione del grano in farina; i molti vasi di arte aretina e campana, ed altri oggetti di gusto raffinato come monili argentei, candelabri, collane, fibule, statue bronzee o di marmo, confermano che qui c’era un emporio commerciale, non potendo così tanto materiale appartenere alla popolazione di stanza, costituita prevalentemente da schiavi. Prima della macinazione il grano veniva lavato in acqua corrente, per mezzo di vasche assai capaci e intercomunicanti per via di canaletti; questi si trovano nei vani attigui alla sala di macinazione, alimentati da una fontana ancora oggi visibile sotto un arco. Per l’asciugatura del grano bastavano aria e sole, ma poiché a Pagliano si lavorava prevalentemente d’inverno per sfruttare la temporanea navigabilità del fiume, si ricorreva ad ambienti riscaldati. Oltre all’aspetto commerciale ed artigianale vi era quello portuale. E’ visibile, infatti, un molo che precede i fabbricati insieme a piloni di ormeggio che fungevano da luogo di approdo e banchina di carico e scarico delle merci. Quindi possiamo parlare di doppio porto fluviale. Complementare ad esso è situata la via terrestre, segnalata da F.C. Gamurrini grazie alla presenza di un tratto di muro costruito con pietra squadrata da ambo le parti simili a teste di ponte.
Il sito archeologico oggi è distribuito su due piani distinti: uno sulla sponda sinistra, l’altro sulla sponda destra. Il piano più basso, quello lungo la sponda sinistra, offre una veduta dell’impianto edilizio che si estende per circa 8000 mq. Il secondo presenta i vani ricolmi di terra alluvionale. Nei vani sono stati ritrovati reperti interessanti, tra i quali frammenti di fittili di arte locale come lucerne e ceramiche aretine e utensili come aghi e anfore e una grande quantità di monete coniate dall’epoca di Augusto fino a quella di Costanzo, che indicano che quel luogo era sede di scambi commerciali. Altri ritrovamenti testimoniano alcuni vani che avevano la funzione di bagno, provvisti oltre che di vasche, anche di oggetti da toilette; in altri sono stati rinvenute colonne in travertino, cippi sepolcrali, nicchie semicircolari e canali per scaricare l’acqua. Probabilmente nella parte inferiore, quella che guarda il corso del Paglia, si pensa che ci fosse la zona adibita alla macinazione e che il vano centrale possa essere stato un luogo di mercato con intorno un ambulacro coperto. Sicuramente in questi luoghi c’era un’intensa attività dovuta sia all’affluenza degli abitanti che vi si recavano per compere o per lavoro, sia di negozianti, di bottegai e di comuni viandanti. La popolazione che abitava la zona limitrofa al porto era di bassa estrazione, ciò è confermato dal fatto che le abitazioni erano addossate le une contro le altre e prive di atrium e peristilium, quindi più assomiglianti alle insulae piuttosto che alle domus gentilizie. Le strutture murarie, le varie iscrizioni, le epigrafi, le monete, la ceramica, sono dati che ci consentono di stabilire una delimitazione cronologica entro la quale Pagliano ha svolto la sua fiorente attività commerciale e portuale. Si ipotizza che le origini furono molto antiche per la probabile esistenza del porto già al tempo degli scontri tra Roma e l’Etruria per il predominio sul Tevere (IV III sec. a.C.); un’ altra ipotesi lo fa risalire al tempo di Silla, nell’80 a.C., in quanto fu allora che l’opus reticolatum cominciò ad apparire. Ulteriori ricerche potrebbero consentire una datazione ancora più antica: Pagliano sarebbe entrato in funzione ancora prima del I secolo a.C. A conferma di ciò si possono ricordare ruderi di muri in opus incertum.
Di grande importanza per delineare il periodo di attività del porto sono le iscrizioni doliari e le ceramiche di Pagliano; queste sono distinguibili per il marchio con il nome dei vasai noti, per la colorazione nera o rossocorallino e per le figurazioni in rilievo. I vasi neri risalgono al II secolo a.C., mentre quelli rossi al I secolo a.C. Sul lato sinistro del Paglia sono stati ritrovati dei resti di scheletri umani che hanno messo in evidenza un’area di circa 900 mq destinati alla sepoltura. E’ di grande interesse l’aver portato alla luce cadaveri interi deposti in urne di coccio ricalcanti la tipologia degli antichi orci italici. La fine dell’ attività di Pagliano va cercata negli avvenimenti che accaddero tra gli anni 395 a.C. e 408 d.C. L’avvenimento che domina tale epoca è la discesa in Italia di Alarico re dei Visigoti. Il suo intento era quello di ostacolare la navigazione sul Tevere per togliere ai Romani i rifornimenti. Durante questa operazione egli distrusse Pagliano, dopo aver abbattuto anche il porto di Ostia. Molto probabilmente il porto venne incendiato come dimostrano i segni dell’azione distruttiva del fuoco. |